Il 12 novembre si è svolto il primo dei due incontri della Comunità Accademica UPS dedicati a Gaza e al conflitto israelo-palestinese, un tema che negli ultimi mesi è tornato al centro dell’informazione e delle coscienze. Ospite dell'incontro è stato il professor Mario Giro, docente straordinario di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Perugia, già viceministro degli Affari esteri e da decenni impegnato nella Comunità di Sant’Egidio nei processi di mediazione di pace.
L’incontro - introdotto dal rettore, che ha annunciato il secondo appuntamento con il patriarca di Gerusalemme, cardinale Pierbattista Pizzaballa, e il giurista Edoardo Greppi - aveva un obiettivo preciso: dare una base storica solida per comprendere il dramma di oggi e uscire dalla logica del “tifo”.
Giro ha iniziato dalla dimensione geografica: Israele e Palestina, messi insieme, sono un territorio “più o meno poco più lungo della Sardegna”. Uno spazio piccolissimo in cui, però, “succede di tutto”. Questa prossimità estrema - luoghi, popolazioni, frontiere, simboli religiosi - rende ogni tensione esplosiva.
Da qui, il professore ha ripercorso le tappe principali:
- Il mandato britannico in Palestina dopo la Prima guerra mondiale.
- La Dichiarazione Balfour del 1917, in cui il governo britannico guarda con favore alla creazione di un “focolare nazionale ebraico”, espressione volutamente ambigua.
- Il contesto coloniale in cui Francia e Gran Bretagna “tirano righe col righello” per dividere il Medio Oriente in sfere d’influenza.
È in questo scenario che nasce il sionismo, definito da Giro non come una parolaccia, ma semplicemente “il nazionalismo ebraico”, non diverso – in origine – da quello italiano, francese o di altri popoli. Come ogni nazionalismo, però, può “ammalarsi” e diventare ultranazionalismo.
Il professore ha poi spiegato il passaggio cruciale della risoluzione ONU del 1947, che prevedeva la nascita di due stati, uno ebraico e uno arabo, con Gerusalemme internazionalizzata. Israele accetta, gli Stati arabi no: Egitto, Giordania, Siria e altri votano contro e scatenano la guerra.
Con la guerra del 1948–49:
- nasce lo Stato di Israele;
- lo Stato arabo palestinese non nasce, per il rifiuto arabo del piano ONU;
- centinaia di migliaia di palestinesi fuggono o vengono cacciati: è la Nabka, il “grande disastro”, trauma fondativo della memoria palestinese.
Giro ha sottolineato un punto spesso dimenticato nel dibattito attuale: Israele non è nato come stato coloniale classico, ma come stato voluto dalla comunità internazionale attraverso l’ONU. “Ti piaccia o non ti piaccia, è così”, ha detto, ricordando che l’Italia nel 1947 nemmeno faceva parte delle Nazioni Unite, avendo perso la guerra.
Un altro spartiacque è il 1967, la cosiddetta guerra dei Sei Giorni. Israele attacca preventivamente Egitto, Giordania e Siria, conquista:
- il Sinai,
- la Cisgiordania (West Bank),
- Gaza,
- le alture del Golan.
Da lì nascono i “territori occupati”. Ed è qui, secondo Giro, che comincia il problema attuale: Israele conquista queste terre e poi non decide davvero cosa farne. Alcune occupazioni nel mondo si sono “congelate”, come la parte turca di Cipro, diventando eccezioni di fatto al diritto internazionale.
Diverso il caso del Sinai, che dopo la guerra del Kippur del 1973 verrà restituito all’Egitto grazie agli accordi di pace. Da allora fra Egitto e Israele c’è una pace fredda ma stabile, e i due paesi collaborano anche nella gestione della frontiera con Gaza. Al contrario, in Cisgiordania e a Gaza il conflitto resta aperto.
Giro ha spiegato anche la logica degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e, per un periodo, a Gaza: inizialmente famiglie povere a cui lo Stato offre casa e terreni in aree occupate; poi, con il tempo, l’arrivo di gruppi ideologizzati di destra religiosa.
Oggi si parla di circa 700.000 coloni nei territori occupati (inclusa Gerusalemme Est), ma “meno della metà” appartiene all’area più estremista e violenta. Eppure è questa parte che ha vinto la battaglia politica interna.
Sul fronte palestinese, il quadro non è meno complesso: esistono
- i palestinesi cittadini di Israele (i cosiddetti “arabi israeliani”),
- i palestinesi di Cisgiordania,
- i palestinesi di Gaza,
- la vasta diaspora nei paesi arabi e nel mondo.
A questo si aggiunge la divisione politica interna: Fatah/ANP da una parte, Hamas dall’altra, con rivalità profonde.
Giro ha poi ricordato il processo di Oslo (1993–95), che prevedeva un percorso graduale verso uno Stato palestinese, partendo dall’Autorità Nazionale Palestinese. Le mappe mostrate durante l’incontro illustrano come le proposte americane e israeliane siano cambiate negli anni, in un continuo gioco di percentuali di territorio, corridoi, scambi.
Il momento forse più vicino a una soluzione è Camp David nel 2000, con la proposta Clinton. Arafat rifiuta, in particolare per due nodi:
- lo status di Gerusalemme,
- il diritto al ritorno dei profughi, che Israele non può accettare per ragioni demografiche.
“Se i palestinesi avessero accettato l’ipotesi Clinton”, ha commentato Giro, “oggi probabilmente staremmo tutti meglio. Soprattutto loro”.
Durante lo spazio domande, una studentessa di psicologia ha chiesto al professore di commentare il conflitto alla luce del concetto di “trauma storico”. Giro ha risposto che il trauma è biunivoco:
- gli ebrei/israeliani portano il trauma della Shoah, che rende il 7 ottobre un evento vissuto come un ritorno dell’incubo;
- i palestinesi vivono il trauma della Nabka e di una lunga serie di sconfitte, esili, occupazioni.
Non è un caso, ha spiegato, che situazioni di questo tipo ricordino altri paesi segnati da guerre civili o conflitti interni: Stati Uniti, Spagna, e molti altri.
Un’altra domanda ha riguardato il ruolo di Benjamin Netanyahu nel rapporto con Hamas. Giro ha parlato di una strategia di “divide et impera”: mantenere Hamas forte a Gaza e l’ANP indebolita in Cisgiordania per evitare un fronte palestinese unito, lasciando passare fondi anche tramite il Qatar, nella convinzione che Hamas si sarebbe “accontentato” del potere e dei soldi.
Questa ambiguità, tuttavia, è esplosa tragicamente il 7 ottobre, quando l’ala militare di Hamas ha colto Israele di sorpresa. Qui, ha sottolineato Giro, si vede sia l’abilità manipolatoria di Hamas, sia la miopia politica di una parte della leadership israeliana.
Alla domanda sugli interessi economici, in particolare sul gas al largo di Gaza, Giro ha relativizzato questo fattore: oggi petrolio e gas sono abbondanti in molte aree del mondo e le grandi compagnie si muovono con grande flessibilità. Il vero motore, almeno per la destra israeliana estrema, non è l’energia, ma la terra: “Quella terra lì, mezza arida e mezza desertica, ma che è la terra della Bibbia, la terra storica di Israele”.
Per questa visione ideologica, il problema non è negoziare risorse, ma difendere un territorio percepito come dono di Dio o conquista storica intoccabile.
In chiusura, il professor Giro ha invitato a resistere alla tentazione del tifo:
“Uno può avere più simpatia per i palestinesi, ovviamente. Ma non è che tutto si può ridurre al tifo, non è una partita di calcio. Serve capire da dove viene questa storia dolorosissima”.
Il rettore ha ripreso questo appello, ricordando anche la voce del rettore dell’Università Ebraica di Gerusalemme, che di recente ha chiesto al mondo accademico internazionale di non tagliare i rapporti: le università, ha detto, sono “l’unica risorsa per creare dentro Israele una cultura diversa per il domani”.
Giro ha concluso con un invito semplice e difficile insieme: continuare a parlare. Parlare con israeliani, con ebrei, con palestinesi, nonostante traumi, paure e rabbia. Perché “la cosa peggiore è smettere di dialogare”.
Il secondo incontro, con il cardinale Pizzaballa e il professor Greppi, proverà ora a spostare lo sguardo sull’oggi, a partire da questa base storica: indispensabile per chiunque voglia capire, e non solo schierarsi.